Manifesto

Teatro Totale

 

                     Alfio Petrini

 Creazioni artistiche in aree intermediali e sinestetiche.

 

 

 

Unità nella diversità

Nove novembre millenovecentottantanove: confine, cesura, frontiera, simbolo di una destabilizzazione politica di rilevanza mondiale. Finito il sogno o l’incubo ideologico, cioè l’illusione che la società possa essere disegnata razionalmente prefigurando una sorta di paradiso terrestre, la realtà ha preso il sopravvento. La rivincita della realtà sull’ideologia ha aperto a nuove progettualità sul versante geopolitico, ponendo all’ordine del giorno anche la necessità di una nuova chiave d’interpretazione culturale. Sparito il nemico, la cultura occidentale è andata sotto choc. Concetti come libertà, progresso, sviluppo, cultura, modernità, hanno subito uno slittamento. Il liberalismo non rappresenta il carro dei vincitori, ma l’unico carro che rimane a disposizione.

 
Il passaggio dalla destabilizzazione politica alla destabilizzazione culturale è un fatto che implica la elaborazione di nuove progettualità culturali e nuove metodologie nella prospettiva della teoria e della prassi dell’unità nella diversità. Dopo la caduta del Muro, gli uomini desiderano vivere in uno spazio unificato, avendo ben radicato nel cuore e nella mente un profondo desiderio di benessere materiale e immateriale, accompagnato dal bisogno di una integrazione sociale rispettosa delle specificità culturali di riferimento. La teoria e la prassi dell’unità nella diversità rappresentano una possibilità originale per giungere all’approdo di una grande civiltà delle idee.

 

Paradossi.

Nella società delle comunicazione di massa non c’è studio, non c’è ricerca, non c’è dialogo. C’è un pullulare di convegni, congressi, conferenze, tavole rotonde, relazioni, rapporti, incontri, riunioni, seminari, dibattiti, talk-shows, ma non c’è dialogo. C’è sviluppo della tecnica, ma non c’è progresso umano.  La parola d’ordine è business. Nulla in contrario, a condizione che non distrugga l’arte.  Sul versante della produzione artistica il movimento somiglia alla stasi e prevale l’azione di difesa dello status quo. Non c’è approfondimento, non c’è analisi del territorio, non ci sono politiche per l’uso sociale dei beni culturali, non c’è ricerca, non c’è creatività.  Non c’è il tempo della creatività.  Tutto appare “nuovo”, “rinnovato” e “innovativo”, ma la pratica è caratterizzata da moduli espressivi ripetitivi.  Alla produzione d’immagine non corrisponde una adeguata produzione di pensiero e di metodo. Il dato cognitivo schizza alla massima potenza, mettendo a margine quello percettivo. Domina la cultura materiale – con implicazioni tutte neo-razionalistiche, neo-deterministiche, neo-positivistiche. E la parte immateriale della vita e della cultura dell’uomo è disattesa, se non completamente dimenticata.  Il senso è un involucro senza sostanza. E la sostanza appare statica, immobile, e perciò conservatrice. C’è poco attività dell’anima, poco eros, poco amore. Non c’è filìa, non c’è sostanza fantasmatica, non c’è mistero, non c’è follia. “ La luce è tenebra, quando è solo luce”. E l’uomo a due dimensioni è finito, re detronizzato, nel bidone delle immondizie.

Il valore aggiunto

Nella cucina del mercato globale l’offerta culturale è trionfalmente “multimediale”. Prendi un testo, aggiungi un po’ di musica dal vivo, proietta alcune diapositive, oppure metti in palcoscenico una ventina di monitor e il gioco – ultramoderno -, è fatto!  Quando fu presentato alla stampa il progetto “Centro Nazionale di Drammaturgia Teatro Totale” per evidenziare la necessità di un forte rilancio delle aree intertestuali, intermediali e sinestetiche, un sorriso ironico apparve sulle labbra di alcuni monumenti della tradizione immobile e della sperimentazione storica. Resta il fatto che oggi quelle aree riscuotono sempre maggiore successo e si stanno diffondendo rapidamente in tutto il mondo. E ci sembra un fatto oggettivo che – ieri come oggi – passare dal salotto del “teatro di parola” alla cucina del “prodotto multimediale” vuol dire praticare ancora la mimesi, con premesse e metodologie simili, con risultati essenzialmente equivalenti: informazioni, spiegazioni, distinte di sentimenti e di psicologie, uso tecnicistico dei nuovi strumenti della comunicazione.

 

La produzione multimediale corrente fa uso di materiali linguistici che rimangono separati e distinti sul piatto dell’offerta. Non legano. Non scambiano specificità.  Non interagiscono; quindi non producono valore aggiunto. Il cibo c’è, ma non c’è il profumo: il profumo della poesia. Ed è questo profumo - aura, mistero, phantasia - che fa la differenza. Ci consente di non morire di verità.

 

La scrittura drammaturgica nazionale, incentrata sulla combinazione di parole che dicono la verità, finisce in generale per essere divorata dalla cronaca e precipitare nello stagno della metafisica della luce.  Vittima di bagliori che non illuminano, la drammaturgia del cosiddetto “teatro di parola” non dura nel tempo: appassisce e ben presto muore. E poi, un conto è affermare la centralità della parola, altro è decretarne il dominio assoluto. Tale dominio è inaccettabile. La progettazione fondata su un sistema di segni variegati si pone come fatto elementare quanto necessario.  Ed è con questo potenziale pieno che si può presupporre di parlare all’intelletto e al cuore degli uomini, nella consapevolezza che esistono sfere di diversa natura e di uguale importanza - materiale e immateriale, dicibile e indicibile, visibile e invisibile, palpabile e impalpabile -, dalle quali non si può prescindere. Bisogna tuttavia riconoscere che esistono poetiche e stili infiniti; che esistono tante drammaturgie per tanti teatri, tanti teatri per tanti pubblici, e che l’istituzione pubblica preposta istituzionalmente a compiere azioni di “promozione” dovrebbe sostenere tutte le drammaturgie esistenti, restando aperta a quelle possibili.  La Casa delle Drammaturgie” è un progetto lanciato nel 2001 in occasione del convegno sul “Teatro Totale”  e che si ritiene fattibile, quanto necessario.

 

La luce d’ombra.

Chi separa il nero dal bianco, la luce dall’ombra, il movimento del pensiero dal movimento del desiderio, nell’arte razionalizza e nella vita demonizza. “La luce è tenebra, quando è solo luce”. La teoria e la prassi della cultura duale (Parmenide ne sapeva già qualcosa..) e dell’unità nella diversità di linguaggi, lingue e culture diverse non sono invenzioni recenti.  Sono contenuti che corrono sul filo dei secoli e rappresentano il terreno fertile delle miscele linguistiche eterogenee, capaci di produrre quel valore aggiunto cui si è fatto cenno.

 

Tornare ai primordi.

Quanto cammino è stato fatto per scoprire che bisognava tornare al punto da cui si era partiti! Per tornare là dove le cose conservano la differenza, là dove la verità si mostra in un rapporto teso con la non-verità, si realizza il luogo della contesa e dell’unità dei poli costitutivi della cultura umana. In questo palintos armonie valori opposti e contrari s’incontrano carichi di tensione, coesistono senza annullarsi e creano una realtà addizionata. Si tratta di uno spazio fatto di segni, dove la parola occupa una centralità riconosciuta, ma non esclusiva. Tutti i segni si connettono al symbolon che apre verso la oscura verità. La mediazione tra i poli costitutivi della chiarezza e dell’oscurità genera il sapere. Il sapere, quindi, come produzione di senso, sapienza, pensiero, conoscenza e abilità; ma anche come aura, mistero, enigma, sensazione, percezione, sentimento. Il nostro sapere di noi include come suo centro un nucleo di sapere cognitivo e un nucleo di sapere percettivo. In una società tragicamente materialistica come quella in cui viviamo c’è il sapere, ma non c’è il non-sapere. La patria dei produttori di nuove forme della comunicazione e dell’espressione artistica sta nel luogo da dove sono partiti. Per questo nostos non occorrono tuttavia piedi, cavalli, navi o aerei intercontinentali. Ci voglio alcune facoltà, che – per il fatto di essere invisibili – vengono troppo spesso sottovalutate o addirittura ignorate.

 

Naufraghi senza sponde.

Lo spettacolo dal vivo non ha bisogno di attori, scrittori, registi. Ha bisogno di uomini.  Non ha bisogno di tecnocrati, ma di artisti, cioè di poeti. Per essere poeti non basta essere scrittori, bisogna essere naufraghi senza sponde. Essi contano sulla forza della propria soggettività. Hanno consapevolezza della vastità del mondo interiore a fronte dell’angustia del mondo esteriore, essendo il primo infinito e il secondo finito. Non si mascherano, si disvelano. Gettano lo sguardo nell’abisso degli errori e degli orrori umani, anche personali.  E riconoscono il dio nascosto nel loro “corpo glorioso”. Per questo hanno una capacità di estensione la più oggettiva possibile. Il poeta non imita. Porta ad essere ciò che prima non c’era. E se è vero che “l’arte è la pratica liberata dalla menzogna di essere la verità”, tornare ai primordi significa fare come Ulisse, che fugge da Circe e da Calipso per tornare là da dove è venuto. E facendo come Ulisse, l’artista deve rallegrarsi della morte di Orfeo per essere stato allo stesso tempo amato e amante di belle immagini. La bellezza sta nell’acqua fluttuante da cui è nata Afrodite, non in quella immobile in cui si specchiava Orfeo. Si tratta di bellezza minacciata d’inconsistenza, così come d’inconsistenza è minacciato ogni progetto tendente a conciliare natura e cultura.

 

La soglia.

La conciliazione tra comunicazione chiara ed espressione oscura è senza dubbio apparente. Nel suo essere apparenza risiede la insuperabilità del dissidio. E non potrebbe essere altrimenti, perché la vera conciliabilità equivale a distruzione, cioè a morte sicura. Il dissidio tra valore comunicato (memoria, ricordo, stile, esperienza, storia…) e il valore percepito (sensazione, sentimento, impressione, mistero ..) è da lasciarsi aperto su una sorta di passerella sonnambulesca, data dalla soglia. E’ un dissidio che genera nuvole, che generano altre nuvole, e ancora nuvole, e nuvole ancora.

 

Il velo.

Ogni oggetto artistico è un’opera dove natura e cultura tentano il sogno della inconciliabilità insanabile. E, giacché insanabile, è una inconciliabilità positiva, cioè creativa. La comunicazione non si concretizza allora in forme di descrittivismo più o meno alto. L’atto di disvelamento attraversa la parola, l’immagine o il suono conservando “l’enigma della bellezza”, cioè il “colore umbratile” della forma organica. Nel sollevare il velo non deve spiegare l’inspiegabile, non deve trattare il bene come prodotto della realtà doppiata, ma come oggetto della realtà ricreata. La creazione artistica è sottoposta a “passaggi, attraversamenti, maree e trasformazioni” che generano aure, sapori, profumi straordinari. E dopo, l’opera può essere soltanto tradita. E pertanto complicata. Analizzare, criticare, leggere, conoscere un’opera qualsiasi vuol dire analizzare, leggere e conoscere il velo che lo separa da noi. Non consiste nel dare una spiegazione razionale al tutto e una volta per tutte. Il velo può e deve essere complicato, se si continua ad accettare metodicamente “la luce/parola che illumina” assieme “all’intrigo pericoloso dell’ombra”.

 

Nostos.

Dunque, creazione artistica come nostos. Come ritorno ad una intertestualizzazione complessa, finalmente totale. Sul terreno del teatro totale e delle aree intermediali non c’è parola piana. La lingua è il silenzio riempito, il canto, il grido, il bisbiglio, il suono o la sua traccia, l’immagine o la sua traccia, l’incolore, il segno di culture diverse. E’ anche quello che viene percepito e lasciato alla soglia delle frasi. E sono anche “le peculiarità ritmiche legate alla musica e alla danza, e anche il valore interdisciplinare e intersemiotico espresso nei secoli, pur senza mai perdere la coscienza dell’immensa possibilità della lingua di poter racchiudere in sé fantasmi e proiezioni di tutti e cinque i sensi”. Le miscele linguistiche, non essendo il risultato di una formula, sono sottoposte anch’esse al rischio della produzione di puro involucro, che nella moda dilagante è puro involucro multimediale. Non è l’oggetto che è bello. E neppure il suo involucro. E’ l’oggetto nel suo involucro che è bello.

 

Creazione come atto di abdicazione.

“La creazione non è un atto di potenza, ma di abdicazione. E’ il mondo da cui Dio si è ritirato e dove può tornare solo da mendicante. Un mondo la cui realtà è fatta dal meccanismo della materia e dell’autonomia della creatura ragionevole”. Nella rappresentazione sensitiva – prima che discorsiva o significativa – il “movimento fisiologico di tensioni e distensioni” genera senza dubbio un forte “respiro della scrittura”. Questo è il destino dell’uomo e delle cose. E l’uomo deve salvare le cose dal nulla, proteggendole dalla nudità assoluta. La nudità assoluta non solo è impraticabile, ma ha un effetto distruttivo sulle cose. Le cose vengono distrutte proprio nel momenti in cui si vuole salvarle, ricordarle, valorizzarle.(Alfio Petrini, drammaturgo, regista, attore, performer, critico teatrale).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota -  Il Manifesto è stato reso pubblico durante il Convegno “Teatro Totale”, 15 novembre 2001,  Museo delle Arti e Tradizioni Popolari , Roma. Successivamente è apparso sulla rivista Prima Fila, n.83, aprile 2002.

 

Roi Vaara, Alfio Petrini